Le sirene che popolano l’immaginario collettivo occidentale sono creature divise in due, il corpo per metà pesce e per metà donna. Figure sensuali, ammaliatrici, che attraggono i marinai tra i loro abbracci fatali. Ma questa visione in realtà è un retaggio di epoca successiva a quella degli inventori delle Sirene, figure mitologiche che popolavano un’isola sulla rotta di Ulisse, sicuramente la loro vittima più celebre. Per i greci che conoscevano i canti di Omero, quelle sirene avevano tutt’altra morfologia. La pittura vascolare ellenica, sia quella più arcaica a figure nere che quella più danzante a figure rosse, rappresentava la sirena come una creatura alata dal volto di donna. Solo nel Medioevo le volatili verranno sostituite da quelle caudate.
Zorba conosce entrambe le sirene, anche se non è uomo di mare, avrà sicuramente visto sugli avambracci di qualche camallo ellenico, sull’insegna muffita di una taverna del Pireo o sulla prua di una nave la polena formosa, dai fianchi che scivolano in squame per concludersi in graziose pinne. Più difficili da incontrare forse le sirene alate, roba da museo.
Ma Zorba conosce l’Odissea e conosce le sirene di Ulisse, raccontate da un novello aedo armato di liraki, una specie di Psarantonis, seduto all’ombra di un cipresso con il tronco dipinto di calce a sorseggiare il suo rhum mentre gli altri ascoltano in religioso silenzio. Quell’uomo, Ulisse, che voleva sentire il pericoloso canto delle sirene e dei suoi semplici espedienti: cera per i suoi marinai e funi per lui.
Zorba è un uomo di terra, al
massimo si affaccia dagli scogli per vedere quella bestia capricciosa, capace
di cullarlo come di sballottarlo fino allo sfinimento da mal di mare. Le
sirene, alate o caudate che siano, sono la sua vera salvezza. Un secchio di
lupini, una miniera di lignite, una vedova con un nastrino blu legato al collo,
una danza sfrenata, un bicchiere di vino, una donna che gestisce una taverna…
la Luna che si affaccia da dietro le colline di gesso e canta per lui…
Zorba ormai vecchio, ha
ascoltato e seguito tante volte la voce delle mille sirene, ora però è stanco.
Il mondo che lui conosce sta per finire, ne legge i segni della decadenza, come
un corpo che invecchia, come il suo. E questa volta, quest’ultima volta non
vuole limitarsi ad ascoltare quel canto, ma vuole essere lui il canto. Poco conta
se il mondo non segue più il suo passo, e se la sua danza sfrenata è fuori
tempo…
Come quella Sicilia della
Belle Epoque, quella Palermo al centro dell’Europa creata dai Florio, ed ora
pronta a crollare in un fallimento che si trascinerà le ville Liberty, i
lampioni a gas, le passeggiate in carrozza, i vestiti mandati a lavare a Parigi
e lo zolfo, ormai inutile, con tutte le sue miniere.
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