domenica 20 gennaio 2013

LE SIRENE DI ZORBA



Le sirene che popolano l’immaginario collettivo occidentale sono creature divise in due, il corpo per metà pesce e per metà donna. Figure sensuali, ammaliatrici, che attraggono i marinai tra i loro abbracci fatali. Ma questa visione in realtà è un retaggio di epoca successiva a quella degli inventori delle Sirene, figure mitologiche che popolavano un’isola sulla rotta di Ulisse, sicuramente la loro vittima più celebre. Per i greci che conoscevano i canti di Omero, quelle sirene avevano tutt’altra morfologia. La pittura vascolare ellenica, sia quella più arcaica a figure nere che quella più danzante a figure rosse, rappresentava la sirena come una creatura alata dal volto di donna. Solo nel Medioevo le volatili verranno sostituite da quelle caudate. 



Zorba conosce entrambe le sirene, anche se non è uomo di mare, avrà sicuramente visto sugli avambracci di qualche camallo ellenico, sull’insegna muffita di una taverna del Pireo o sulla prua di una nave la polena formosa, dai fianchi che scivolano in squame per concludersi in graziose pinne. Più difficili da incontrare forse le sirene alate, roba da museo.





Ma Zorba conosce l’Odissea e conosce le sirene di Ulisse, raccontate da un novello aedo armato di liraki, una specie di Psarantonis, seduto all’ombra di un cipresso con il tronco dipinto di calce a sorseggiare il suo rhum mentre gli altri ascoltano in religioso silenzio. Quell’uomo, Ulisse, che voleva sentire il pericoloso canto delle sirene e dei suoi semplici espedienti: cera per i suoi marinai e funi per lui. 





Zorba è un uomo di terra, al massimo si affaccia dagli scogli per vedere quella bestia capricciosa, capace di cullarlo come di sballottarlo fino allo sfinimento da mal di mare. Le sirene, alate o caudate che siano, sono la sua vera salvezza. Un secchio di lupini, una miniera di lignite, una vedova con un nastrino blu legato al collo, una danza sfrenata, un bicchiere di vino, una donna che gestisce una taverna… la Luna che si affaccia da dietro le colline di gesso e canta per lui…
Zorba ormai vecchio, ha ascoltato e seguito tante volte la voce delle mille sirene, ora però è stanco. Il mondo che lui conosce sta per finire, ne legge i segni della decadenza, come un corpo che invecchia, come il suo. E questa volta, quest’ultima volta non vuole limitarsi ad ascoltare quel canto, ma vuole essere lui il canto. Poco conta se il mondo non segue più il suo passo, e se la sua danza sfrenata è fuori tempo…
Come quella Sicilia della Belle Epoque, quella Palermo al centro dell’Europa creata dai Florio, ed ora pronta a crollare in un fallimento che si trascinerà le ville Liberty, i lampioni a gas, le passeggiate in carrozza, i vestiti mandati a lavare a Parigi e lo zolfo, ormai inutile, con tutte le sue miniere.

  Non fugge Zorba. Si nega solo a ciò che non gli appartiene. Come un grande artista capisce quando è il momento di uscire di scena. Le sirene lo accompagneranno e lui si risparmierà il  triste epilogo del quotidiano, dell’incapacità di sognare, delle catene di montaggio, del materialismo, del portare i soldi a casa, dei doveri e delle responsabilità valide solo per chi le impone, dei conformismi, di chi non sa sorridere, danzare, cantare come solo lui sa fare… Tutto questo non gli appartiene. Lui ha bisogno di un buon suonatore di buzuki, qualcuno intorno a battere il tempo con le mani, il mare che si spartisce il ruolo di fondale con il cielo, la luce della Luna a illuminargli i passi come le braccia di una donna ad accompagnarlo verso un canto, un canto lungo quanto una notte.

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