sabato 26 gennaio 2013

SUGLI OROLOGI MECCANICI E LE BUSSOLE 1




Zorba porta raramente un orologio, al massimo ne tira fuori uno che se lo tiene nel taschino del panciotto, ma dato che non mette quasi mai il panciotto, direi che non è uno degli strumenti che più ama. E ovviamente non potrebbe essere che così, dato che per lui il tempo non esiste, il tempo è una gabbia, una costrizione. Figurarsi se si fa incatenare da un tic-tac legato al polso. Ne avrebbe da dire sulle similitudini con cappi e guinzagli.

Era fermo sulla banchina di Salonicco ad aspettare non sapeva bene che cosa. Aveva le tasche vuote ma un orologio da gran signore. Passa uno zingaro e gli chiede cosa aveva da ridere.
Zorba, senza alzare lo sguardo, gli dice che non lo sa.
“Allora ti sei fumato le cervella la scorsa notte” fa lo Zingaro.
“Può darsi, sicuro è che ho perso tutto per liberare un uomo”.
“Liberare?”
“Sì, con le carte. Ho dovuto giocare a ramino tutta la notte per vincerlo alle carte il mio avversario. Un tipo di Stoccolma. Un armadio biondo, con i capelli tutti impomatati che parevano la peluria di un pulcino appena sgusciato. Non voleva saperne, tutta la notte a lottare, gli ho tolto tutti i quattrini, e ne aveva sai amico, una bisaccia piena, ma se ne liberava tranquillo e sereno. Allora ho capito. Appena ha cominciato a venire chiaro dalla finestra quello principia a guardare l’orologio. Aveva fretta, sembrava assatanato. Come? Mi dico, prima facevi tanto il colosso mentre ti spillavo tutti quei denari, ed ora ti rammollisci per il sole che sta per spuntare? Doveva andare via, ripeteva continuamente che aveva un appuntamento. Ho fretta, ho fretta, guardando l’orologio, gli tremava il labbro mentre si tormentava sulla sedia. Allora sai cosa gli dico Zingaro?”
Lo Zingaro, che nel frattempo si era seduto accanto a lui, rollandosi una sigaretta lunga e sottile come un pennino da scrivano, sfumacchiava contento ascoltando Zorba.
“Cosa gli dici greco?”
“Gli dico, ragazzo, se devi andare via fai pure, ma non è da uomini levarsi di torno così nel bel mezzo di una partita alle carte. Non ti dico che sei un vigliacco, non ti conosco, ma se un giorno mi parleranno di te e ti chiameranno così, vigliacco, caro ragazzo, stai sicuro che non ti difendo. Quello all’inizio si alza nervoso, io penso che se questo mi tira un pugno, la buonanima di mia mamma mi chiederà la carta d’identità quando arriverò al creatore, tanto mi avrà stropicciato lo svedese. Invece si fruga nelle tasche dei calzoni e tira fuori un tappo di sughero, una matassina di canapa e un bottone di madreperla. C’ho solo più questo da giocarmi. No ragazzo, tira su la manica sinistra della camicia, che quel gingillo forse non ti serve. No! Lo guardo come si guarda il pollo prima di tirargli il collo, hai presente come si fa zingaro? Li mangiate voi i polli no? Lo fissi e cerchi di non fargli capire che lo stai mandando all’altro mondo, sennò quello fa un chiasso di penne e piume da farti passare la voglia di mangiartelo arrosto”.
Lo zingaro, annuisce, e gli offre una sigaretta più corta e spessa, che aveva preparato nel frattempo.
Zorba l’accetta, se l’accende e riprende.
“Dunque, lo svedese si sfila l’orologio, lo mette sul tavolo, si risiede e grida spela! Io la capisco la sua lingua di uccellacci di mare e aringhe. Giochiamo allora ragazzo! Una mano sola, e l’orologio eccolo qua!” e se lo rimira al polso.
“Quello se ne va via così leggero, che non pensava più all’appuntamento che lo tormentava. Certo all’inizio era un po’ triste, ma lo vedevo allontanarsi a poco a poco, senza fretta, libero da quest’orologio che lo incatenava con il suo tic-tac infernale. Ora può fare quello che vuole. Io l’ho liberato” e aspira una bella boccata di fumo.
Lo zingaro sorride e gli dice “Magari aveva un appuntamento importante?”
“Cos’è un appuntamento importante, zingaro? Niente ti può far diventare uno schiavo del tempo, non esistono appuntamenti importanti!”
“Un lavoro?”
“Bah!”
“Un funerale?”
“Tanto il morto non ti sgrida se arrivi in ritardo”.
“Una donna!”
“Se era una donna dici? Non credo che si sarebbe messo a giocare a carte… Fammi un’altra delle tue sigarette zingaro, che me la conservo”.
Zorba, mentre lo zingaro si mette a preparargli una sigaretta, rimira l’orologio e ricomincia.
“No dico, ma ti rendi conto? Gli devi dare la carica tutte le mattine!”
“Meglio no?” fa lo zingaro.
“Come meglio?”
“Così, se un giorno ti stufi, puoi smettere di dargli la carica così lui si ferma, e sei di nuovo libero anche tu…”
Zorba lo guarda perplesso, poi fa un bell’anello di fumo e la bocca gli si stende in un sorriso.
“Hai ragione! Mi piacciono questi orologi!” E gli rifila una sonora pacca sulla spalla.
“sai che ti dico zingaro? Alla fine però, che io gli dia la carica o meno, questo cercherà sempre di fregarmi. Te lo regalo, a me non serve”.

giovedì 24 gennaio 2013

Dal blog Personal velocity http://micaelaveronesi.blogspot.it/

Zorba e le donne, le donne e Zorba
Una scena del film Zorba il greco di Michael Cacoyannis recitato e prodotto da Anthony Quinn
Da bambina Zorba era per me il sirtaki. Lo ballavo con mia mamma che me ne insegnava i passi e mi divertivo un mondo con quella musica così allegra e coinvolgente al punto che avevo anche imparato a usare il giradischi pur di rimettere il disco da sola. Forse avevo visto anche il film, chissà, non ricordo ma può darsi che la Rai lo avesse programmato in una sera d’estate dei primi anni Settanta.
Non avevo più pensato a Zorba, fino a qualche mese fa, quando Fabio Scibetta mi ha chiesto di leggere il suo nuovo testo teatrale, in cui lui, Zorba, è appunto il protagonista.
Come in tutti i testi di Fabio, in La luna di Zolfo c’è il giusto mix fra poesia, ironia e visionarietà. Uno Zorba insolito, il suo, che viaggia fino in Sicilia, fa affari sfortunati addirittura con i Malavoglia (!!!) e si imbatte con Ciaula e Rosso Malpelo, tutti ovviamente a lavorare in una miniera. Scibetta lavora così: d’impulso. Le idee gli vengono e hanno già forma. Per questo è un artista ma è anche un uomo generoso. Non vive abbarbicato in un pianeta solo suo, sta qui, su questa Terra e lavora per renderla migliore.
Il problema – se di problema si può parlare – è nato quando ho incontrato lo Zorba letterario, quello originale, di Nikos Kazantzakis. 
                                                  
Continua a leggere su http://micaelaveronesi.blogspot.it/2012/08/zorba-e-le-donne.html



Una veduta di Creta





Il vero Yiorgis Zorbas al quale è ispirato lo Zorba di Kazantzakis
Kazantzakis a Creta

domenica 20 gennaio 2013

LE SIRENE DI ZORBA



Le sirene che popolano l’immaginario collettivo occidentale sono creature divise in due, il corpo per metà pesce e per metà donna. Figure sensuali, ammaliatrici, che attraggono i marinai tra i loro abbracci fatali. Ma questa visione in realtà è un retaggio di epoca successiva a quella degli inventori delle Sirene, figure mitologiche che popolavano un’isola sulla rotta di Ulisse, sicuramente la loro vittima più celebre. Per i greci che conoscevano i canti di Omero, quelle sirene avevano tutt’altra morfologia. La pittura vascolare ellenica, sia quella più arcaica a figure nere che quella più danzante a figure rosse, rappresentava la sirena come una creatura alata dal volto di donna. Solo nel Medioevo le volatili verranno sostituite da quelle caudate. 



Zorba conosce entrambe le sirene, anche se non è uomo di mare, avrà sicuramente visto sugli avambracci di qualche camallo ellenico, sull’insegna muffita di una taverna del Pireo o sulla prua di una nave la polena formosa, dai fianchi che scivolano in squame per concludersi in graziose pinne. Più difficili da incontrare forse le sirene alate, roba da museo.





Ma Zorba conosce l’Odissea e conosce le sirene di Ulisse, raccontate da un novello aedo armato di liraki, una specie di Psarantonis, seduto all’ombra di un cipresso con il tronco dipinto di calce a sorseggiare il suo rhum mentre gli altri ascoltano in religioso silenzio. Quell’uomo, Ulisse, che voleva sentire il pericoloso canto delle sirene e dei suoi semplici espedienti: cera per i suoi marinai e funi per lui. 





Zorba è un uomo di terra, al massimo si affaccia dagli scogli per vedere quella bestia capricciosa, capace di cullarlo come di sballottarlo fino allo sfinimento da mal di mare. Le sirene, alate o caudate che siano, sono la sua vera salvezza. Un secchio di lupini, una miniera di lignite, una vedova con un nastrino blu legato al collo, una danza sfrenata, un bicchiere di vino, una donna che gestisce una taverna… la Luna che si affaccia da dietro le colline di gesso e canta per lui…
Zorba ormai vecchio, ha ascoltato e seguito tante volte la voce delle mille sirene, ora però è stanco. Il mondo che lui conosce sta per finire, ne legge i segni della decadenza, come un corpo che invecchia, come il suo. E questa volta, quest’ultima volta non vuole limitarsi ad ascoltare quel canto, ma vuole essere lui il canto. Poco conta se il mondo non segue più il suo passo, e se la sua danza sfrenata è fuori tempo…
Come quella Sicilia della Belle Epoque, quella Palermo al centro dell’Europa creata dai Florio, ed ora pronta a crollare in un fallimento che si trascinerà le ville Liberty, i lampioni a gas, le passeggiate in carrozza, i vestiti mandati a lavare a Parigi e lo zolfo, ormai inutile, con tutte le sue miniere.

  Non fugge Zorba. Si nega solo a ciò che non gli appartiene. Come un grande artista capisce quando è il momento di uscire di scena. Le sirene lo accompagneranno e lui si risparmierà il  triste epilogo del quotidiano, dell’incapacità di sognare, delle catene di montaggio, del materialismo, del portare i soldi a casa, dei doveri e delle responsabilità valide solo per chi le impone, dei conformismi, di chi non sa sorridere, danzare, cantare come solo lui sa fare… Tutto questo non gli appartiene. Lui ha bisogno di un buon suonatore di buzuki, qualcuno intorno a battere il tempo con le mani, il mare che si spartisce il ruolo di fondale con il cielo, la luce della Luna a illuminargli i passi come le braccia di una donna ad accompagnarlo verso un canto, un canto lungo quanto una notte.

sabato 19 gennaio 2013

I vecchi e i giovani. E lo zolfo

"L'industria, il commercio, la vera attività insomma si era da un pezzo trasferita a Porto Empedocle giallo di zolfo, bianco di marna, polverulento e rumoroso, in poco tempo divenuto uno de' più affollati e affacendati emporii dell'isola. Ma anche là, la sovrabbondanza dello zolfo per le condizioni mal proprie con cui si svolgeva l'industria, l'ignoranza degli usi a cui quel minerale era destinato e dei profitti che se ne potevano ricavare, il difetto di grossi capitali, il bisogno o l'avidità di un pronto guadagno, eran cagione che quella ricchezza del suolo, che avrebbe dovuto esser ricchezza degli abitanti, se n'andasse giorno per giorno ingoiata dalle stive dei vapori mercantili inglesi, americani, tedeschi e francesi, lasciando tutti coloro che vivevano di quell'industria e di quel commercio con le ossa rotte dalla fatica, la tasca vuota e gli animi inveleniti dalla guerra insidiosa e feroce con cui si eran conteso il misero prezzo o lo scotto o il nolo della merce da loro stessi rinvilita".


(Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, Mondadori, pp.141-142)
....

In attesa che Zorba arrivi a cambiare le cose!!!


lunedì 7 gennaio 2013

QUANDO ZORBA INCONTRÒ CIAULA E ROSSO MALPELO



La storia è quella di un uomo che viaggia non per necessità ma per amore. Amore della vita.
Ma la vita è quella piena e densa di ogni emozione e dunque Zorba incanta la fame, la tristezza, la povertà, la morte ma anche la gioia, quella intensa che nasce dagli eventi più piccoli: il sorriso di un bambino, gli occhi di una donna, l’odore del mare, la Luna piena…
Questo uomo, Zorba, nasce lontano, nella Creta arcaica di fine Ottocento, dalla fantasia di uno scrittore greco, Nikos Kazantzakis, Zorba però non si ferma tra le pagine del suo libro, ma arriva fino a Hollywood e diventa un film. Impersonato da Anthony Quinn, Zorba il greco diviene mito. Ma non si ferma ancora. Noi da bambini lo abbiamo solo immaginato, perché capirlo era impossibile, ma si vedeva dalle facce dei grandi che era un tipo simpatico. Poi è diventato un vecchio saggio, - più saggio che vecchio – e ha incontrato Fabio Scibetta in una notte di agosto, sotto la Luna piena. Con Fabio, Zorba è arrivato in Sicilia, in un’epoca imprecisata, in un luogo imprecisato, anche se qualche segno ce lo fa collocare alla fine dell’Ottocento (cioè alla sua epoca) e lì Zorba ha incontrato altri miti, uomini meno solari di lui cui Zorba non ha potuto che lasciare qualcosa di buono e di bello in eredità: la voglia di vivere e il piacere di essere vivi. 
Rosso Malpelo così ha viaggiato – lui pure – dalle pagine verghiane al palcoscenico di Scibetta e finalmente ha imparato a sorridere.
Il Ciaula di Pirandello, un altro minatore letterario, fa capolino in questo spettacolo: solo un’uscita, una piccola comparsata ma molto evocativa perché tutto in questo testo ruota intorno alla Luna.
E’ la Luna la vera protagonista.
Ma allora perché la Luna è di zolfo?
Lo zolfo non come elemento degli inferi, o comunque non solo. Zorba certo è un po’ mefistofelico, ma lo zolfo che respira è quello reale, puzzolente, l’odore della terra che ha incontrato, l’odore che si portano addosso i minatori e anche Rosso. Ma lo zolfo è anche colore, la luce di limone e grano violentemente maturo sotto il sole di una Sicilia ormai immaginaria, che però proviene dalle viscere della terra e Rosso, che alla terra è incatenato, lo immagina valido anche per la Luna. Grande, luminosa, paradossalmente tangibile proprio grazie alla sua irraggiungibilità. Sarà Zorba a togliere quel puzzo luciferino per darle una luce d’oro, di miele e di grano biondo.

domenica 6 gennaio 2013

In principio le Sirene e l'Odissea


...νῆα κατάστησον, ἵνα νωιτέρην ὄπ ἀκούσῃς.
 Οὐ γάρ πώ τις τῇδε παρήλασε νηὶ μελαίνῃ,
 πρίν γ᾽ ἡμέων μελίγηρυν ἀπὸ στομάτων ὄπ᾽
ἀκοῦσαι...


Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei,
ferma la nave, la nostra voce a sentire.
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,
se prima non sente suono di miele, dal labbro nostro la voce;
poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose…


Omero, Odissea, canto XII, vv. 166-200 
Einaudi, (traduzione di Rosa Calzecchi Onesti)