Istanbul, mercato
di Kadikoy 22 dicembre 1901.
Un fiume di
gente scorre nella trincea delle bancarelle. Un via vai apparentemente caotico,
ma che se lo si vede dall’alto, apparirebbe come una pulsazione sanguigna
che irriga tutto. A differenza degli
altri quartieri, a Kadikoy l’Asia è visibile, si sente ancora di più nelle
pozzanghere sotto i banchi del pesce, nelle piramidi di pepe, nelle teste di
agnello bollite ed esposte su piani di marmo insanguinato. Ma quella fiumana di
ebrei,
greci, armeni, albanesi, bulgari, persiani, italiani, tedeschi e francesi ha
portato con sé secchi di denaro che vanno a finire in mattoni, cemento e
luminose vetrate che vogliono imitare quella spigliatezza parigina, sposandosi
con il languore levantino. Ma tutto è ancora solo brusio di un cantiere lontano,
il mercato fa abbastanza rumore da non accorgersene ancora.
Un
polacco con la divisa da sottufficiale inglese, portata con la sicurezza di un ammiraglio,
cammina contro corrente, ogni tanto si ferma a far finta di guardare le mercanzie esposte. In qualsiasi
altro luogo la sua figura sarebbe apparsa per quello che sembra. Ma al mercato
di Kadikoy, un bottone scucito, una macchia di rhum sul bavero e il berretto
sprimacciato sono messaggi facili da leggere. Dietro di lui, zigzagando come
una covata di pulcini appresso alla chioccia, lo tengono d’occhio una
ciurmaglia addobbata di stracci turchi e brandelli di marsine europee. Lui è la
preda. Ha addosso il suo fallimento di una notte a backgammon con un armeno che
ha bevuto solo tè verde, mentre lui, con la sua spocchia anglosassone è andato
avanti a forza di bicchierini, fino a ritrovarsi senza una sola moneta. Ora è
in cerca di qualche cosa, ma non sa bene che cosa e quindi prova a sbatterci
contro. Stanco, con le suole ormai smussate dal porfido, trova dei tavolini e qualche
sedia di ferro battuto. Ci si siede sperando che nessuno venga fuori a
chiedergli cosa vuole bere. I pulcini gli fanno cerchio, ma ben nascosti tra la
folla, aspettano. Dal caffè esce, invece del barista, un tipetto segaligno, con
un paio di baffi inaugurati da poco. Sui venti anni, indossa un tabarro blu, dei
pantaloni di fustagno con le toppe alle ginocchia, scarponi da minatore che
scricchiolano sul selciato. In testa, un berretto della marina russa, cattura
qualche ciocca di capelli neri e lucenti come ossidiana.
Il
ragazzo si siede accanto al polacco, lo squadra, si fa subito un’idea della
situazione e incrocia subito con lo sguardo i pulcini. Parte una lotta muta,
fatta di occhiate, brevi, fulminanti, e il giovane ne è il vincitore, perché la
ciurmaglia si dissolve trascinata dalla folla.
“Sir,
abbiamo passato una bella nottata!”
Il
polacco alza lo sguardo e fissa il giovane che gli ha parlato in un inglese del South Yorkshire sporco di “s”
egee ,
ma senza espressione.
“Se
hai bisogno di denaro, stai parlando con la persona sbagliata”
“Sir,
per chi mi prendi?”
Il
giovane chiama qualcuno da dentro e gli portano due bicchierini di rhum e un piatto di dolci alle rose. Il
polacco non si muove mentre il giovane gli porge il suo in attesa di un
brindisi.
“Non
dovresti essere arrabbiato con tutti Sir, io non so cosa ti hanno fatto, ma io
non c’entro. Bevi avanti. Non voglio nulla da te. Voglio solo brindare con
qualcuno, che domani parto, me ne vado, verso l’America. Sai, io con il mare
non è che ci vada tanto d’accordo… anzi, mi fa proprio paura. Però mi dicono
che in America anche le vacche cagano dollari… scusa l’espressione” e gli da’ un buffetto sulla spalla. Il
polacco sorride e guarda il bicchiere pieno. Allora il giovane, incoraggiato da
quel sorriso, continua.
“Insomma,
ho visto un marinaio vero, che il mare lo acchiappa sotto le ascelle e mi dico,
Alexis, offri un bicchiere a quest’uomo, che ti porta fortuna di sicuro!” E
questa volta gli rifila una sonora pacca sulla spalla.
Il
polacco, lo guarda severo, quasi adirato, il giovane si pente di essersi preso
tanta confidenza e rimane fermo con il bicchiere a mezz’aria. Ma tra gli occhi
celesti del mare del nord e quelli blu dell’Egeo si apre un passaggio largo
come quello del Bosforo e ci entra un sorriso. Il polacco afferra il bicchiere
e lo fa brillare con il suo compagno.
“Prosit!”
“Jamas!”
E
i due attaccano a parlare con arretrati ventennali.
Il
sole cala, ed entra nei vicoli del mercato, le pozzanghere di sudiciume
brillano d’oro. Kadikoy cambia scene e attori.
Il
polacco cerca l’orologio da taschino, ma si è ricordato che l’ha perso al
gioco, allora chiede al giovane che ora è, ma neanche Alexis ha un orologio.
“Non
mi piacciono”
Ferma
un francese con una cassa piena di stoffe sulla schiena e gli chiede che ora è.
Posa la cassa tira fuori l’orologio dal taschino che il polacco è convinto di
riconoscere ma lascia perdere, sarebbe troppo lungo da spiegare. Si è fatto
tardi per qualche cosa che non sa bene neanche lui. Alexis non ha voglia di
andarsene, tra poche ore partirà il suo cargo e tutta quella dolcezza si
dissolverà. Magari dandosi il cambio con il mal di mare.
“Sir,
sono stato bene. Parlare con te mi ha messo coraggio, ora se devo galleggiare
lo faccio con più decenza, grazie alle tue parole”.
Il
polacco tira fuori dalla tasca interna della giacca una scatolina di legno
decorata con bordi d’oro. La mette sul tavolo di marmo e fa cenno ad Alexis di
prenderla.
“Cos’è?”
“Guarda
da te. E’ tua”.
Il
ragazzo la prende con delicatezza e fa scattare il piccolo uncino che la tiene
chiusa. Dentro c’è una bussola con la sua lancetta che ondeggia.
“Mi
è rimasto solo questo, ma volevo regalarti qualche cosa. In mare ti servirà.
Sai come funziona? Segna sempre il nord”
“Perché?”
Il polacco rimane stupito da quella domanda.
“Perché
la lancetta è attratta dal campo magnetico…” ma si ferma, in un altro momento,
in un altro luogo, quel tipo di risposta sarebbe stata logica, ma sentiva che
gli occhi blu di quel ragazzo non potevano accontentarsi di una risposta del
genere.
“Non
lo so perché, ma tienila per ricordo” si alza, gli porge le mano, “Buon viaggio
ragazzo, buona fortuna” beve l’ultimo sorso dell’ultimo rhum “Come ti chiami
ragazzo?”
Alexis
si alza anche lui, si toglie il cappello, si passa la mano sul cappotto e
afferra vigorosamente quella del polacco “Alexis Zorba, sir”
“E’
stato un piacere Alexis, io mi chiamo Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski “
“Ma
non sei inglese?”
“Non
completamente!”
L’inglese
polacco se ne va e Zorba rimane seduto a guardarlo scomparire. Poi osserva la
bussola. La lancetta oscilla e si ferma a nord. La fissa, la agita un po’, come
per sentirne gli invisibili ingranaggi all’interno. La riposa sul tavolo e la
lancetta ritorna a nord.
“Io
non ci casco”
Se
la infila in tasca e se ne va.
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